Tipicità

Quando stavo in Svezia, dall’Università di Upsala mi chiesero di scrivere un capitolo sulla cucina italiana per una loro pubblicazione.

Quando stavo in Svezia, dall’Università di Upsala mi chiesero di scrivere un capitolo sulla cucina italiana per una loro pubblicazione. Non mi decidevo mai a scrivere ed ai loro solleciti rimandavo di volta in volta. Poi ebbi l’illuminazione: la cucina italiana non esiste. Esistono invece dieci, cento, mille cucine disseminate lungo lo Stivale. Di piatti nazionali eiste solo il soffritto e la pasta e fagioli, per il resto ogni regione, comune, quartiere e spesso anche ogni famiglia ha la sua cucina personale. Naturalmente Apricale non fa eccezione anzi potrebbe essere citata come esempio. Le pietanze che qui si preparano provengono dalla memoria delle mamme delle nonne delle bisnonne e su su per un migliaio di anni. Innanzitutto gli ingredienti che si usano in cucina sono a kilometro zero, ecologici, e con particolare cura alla qualità e stagionalità. Diverse volte siamo stati con Linea Verde ed altre trasmissioni TV a celebrarne il prestigio. Dalla coda di stoccafisso ripiena, ai beroudi, ai ravioli di erboraggine ai barbagiuai presentati da Delio e la sua équipe alla sfida del cuoco su Rai 1. Non bisogna dimenticare lo zabaglione e pansarole. Negli anni 70 invitaii ad Apricale alcuni artisti per verificare l’idea degli affreschi murali. Tra di essi Ennio Morlotti, Agrifoglio, Borgna, Barbadirame, Mart Org, Folon, Enzo Cini, Enzo Pazzagli ed alcuni giornalisti della Stampa, Secolo, Corriere, Nice Matin. Al termine della cena qualcuno cheise cosa c’era di dessert. C’erano solo dele mele.. “Perchè non gli fate lo zabagline come mi faceva mia madre Ida alla mattina ?” – chiesi – Gli fecero anche le pansarole. Un sccesso al punto che oggi Apricale si potrebbe chiamare il paese dello zabaglione. Non bisogna dimenticare che qui si produce olio di oliva superiore, miele, e negli orti si raccolgono insalate, basilico, erbe aromatiche e tutto quanto serve per rndere subime la cucina di Apricale.

 

Clode Nobbio

Secondo alcuni storici, la coltivazione dell’ulivo in provincia di Imperia, risalirebbe al 1100, ad opera dei frati Benedettini.
Le valli, che formano il territorio godono di un clima temperato a bassa escursione termica annuale. E’ qui che l’ulivo ha trovato l’ambiente giusto e il clima adatto. Il terreno fu sistemato a fasce (terrazze) e la cultivar Taggiasca, che prese il nome da Taggia, iniziò a produrre il migliore olio del mondo.

 

La cultivar presenta una produttività elevata e costante. Le drupe si prestano ad una facile estrazione e forniscono un olio particolarmente pregiato

 

L’olio prodotto con l’oliva taggiasca è stato valutato da molti esperti come il migliore del mondo. E’ prezioso come olio da taglio, dà il tocco finale a miscele di olii di provenienze diverse.
I frutti della taggiasca forniscono rese abbastanza elevate con olio molto ricercato per le caratteristiche organolettiche, olio che possiamo considerare il migliore per la sua finezza, la leggerezza, il colore e per le perfette costanti fisico-chimiche possedute.

 

Cenni storici…

Il termine “pansarola” lascia perplessi quando lo si sente pronunciare al di fuori di quel piccolo territorio che viene definito “zona Intemelia”. Ma se si dice “pansarola” a Ventimiglia e dintorni, ecco che a tutti viene l’acquolina in bocca pensando a quel dolce prelibato che si prepara ad Apricale e che si gusta “affogato” nello zabaglione. William Scott, nel suo pregevole “The Riviera painted and described” pubblicato a Londra nel 1907 parlando di Apricale cita le “pansarole” e descrive come si preparano.. Ogni apricalese ha un suo segreto per preparare le “pansarole” migliori, ma a quanti vogliono cimentarsi nell’impresa è doveroso dare una ricetta antica consigliata da Delfina Rossi che vinse la “Pansarola d’oro” e che partecipò alle prime sagre.

 

La ricetta delle Pansarole

Ingredienti:

-1 Kg. di farina

-2 uova

-100 gr. di burro o ancora meglio di olio d’oliva extravergine di Apricale

-lievito di birra

-un pizzico di sale

-buccia di limone grattugiata

 
Preparazione:

Impastare e amalgamare bene il tutto, lasciar lievitare il preparato coprendo con un asciugamano, stendere la pasta e tagliare a rombi. Friggere in abbondante olio d’oliva extra vergine. Una volta terminata la cottura, cospargere le pansarole con zucchero e, se lo si desidera, spruzzare un pò di anice.

Un modo insolito e caratteristico di preparare il coniglio è quello antico della Val Nervia e specialmente ad Apricale.

 

Mio nonno Bacì, detto “Giürumin” risiedeva ad Apricale ma, di fatto, viveva in “Foa”.
Classe 1887, reduce dalla Grande Guerra, negli ultimi suoi anni mia Mamma, mio fratello ed io andavamo, una volta la settimana, a portargli le provviste.
Dopo un’ora e mezza di mulattiera, passando in “Cunsigliöl, Cola, Bligagnöl e Albareü”, si arrivava in “Foa”.
Alla sera, prima che ritornassimo a casa, mio nonno andava “en te ü stagiu” (nella stalla), prendeva un coniglio, due “pate en sce öureglie” (due colpi secchi sulle orecchie), gli faceva “dare il sangue” ed accendeva un fuoco di “trunchi” (a fiamma viva), ci metteva u “trempè” (il treppiede) vi posava il coniglio e gli “bruscava” (bruciava) tutto il pelo.
Terminata l’operazione, lo lavava per bene nella vicina “riana” (ruscelletto) con sapone di Marsiglia, quello da bucato, e lo risciacquava ancor meglio nell’acqua corrente.
Lo svuotava delle interiora, lo risciacquava ancora ed il giorno dopo in tavola ci sarebbe stato “u cunigliu brüscau”.
Dopo averlo lasciato una notte “a serena” (sul davanzale al fresco) mio padre lo tagliava a pezzi con “u martarettu” (l’accetta). Mia mamma iniziava a farlo cuocere.
Nel tegame di coccio, a fuoco lento e con il coperchio, il coniglio “dava l’acqua”, che poi veniva eliminata. Aggiungeva olio d’oliva ed il coniglio rosolava per bene. Quindi due belle cipolle, una testa d’aglio, sale, mazzetto con timo, salvia, rosmarino, alloro e lasciava il tutto a rosolare.
Mezzo litro circa di Rossese, una manciata di olive salate e la cottura continuava. Quando era quasi cotto (45 min. / un’ora) aggiungeva un bel pomodoro a tocchetti ben maturo, privato dei semi e della buccia ed il fegato lasciato da parte. Intanto rosolava una padellata di patate ed una volta cotte le aggiungeva al coniglio.
Quindici minuti di riposo a fuoco spento, con il coperchio ed era festa. Se ne avanzava, il giorno dopo, riscaldato era ancora più buono.

Delio

I fichi! Pilastro nell’alimentazione contadina nei secoli scorsi. Coltura complementare con l’olivo in quanto espandeva le radici in profondità al contrario dell’olivo che le espande piuttosto in superficie. Riserva di zuccheri nella stagione invernale. Apricale con un territorio esteso ad un altitudine adatta alla coltivazione dell’olivo, anzi con un territorio quasi tutto vocato a questa coltivazione, è anche ricco di piante di fico. GIi statuti comunali del 1200 riportavano pene severe a chi tagliava un ramo di fico senza autorizzazione.

 

I fichi secchi:

Si raccolgono i fichi (coli de dama, bel’omi) in piena maturazione, avendo l’accortezza di non danneggiare il picciolo. Si posano su graticci di canne in un luogo ventilato e ombroso e si lasciano seccare. Quando sono secchi, si raggruppano in cumuli di circa 10/12 e si avvolgono in foglie di pesco. Si legano con la rafia e si conservano in un luogo fresco e asciutto. Tradizionalmente si mangiavano a Natale.

Dolce di origine araba, ma ormai entrato a fare parte della nostra cucina.
E’ costituito da due “Negie” (ostie, cialde) sovrapposte nel cui interno è racchiuso un croccante di nocciole e miele.
Dolce di origine araba, ma ormai entrato a fare parte della nostra cucina.
E’ costituito da due “Negie” (ostie, cialde) sovrapposte nel cui interno è racchiuso un croccante di nocciole e miele.
Corroborante dolce di paziente ed elaborata preparazione, ma di lunga conservazione, veniva regalato in occasione del Natale e tra gli innamorati.

La settimana di S. Giovanni, alla fine di giugno è la più adatta per salare le acciughe. Sono belle grosse e l’estate in arrivo favorisce la maturazione nelle “Albanelle” (vasi di vetro).
Il gusto forte dona ai cibi in cui viene incluso un invitante sapore marinaresco. Staccare la testa alle acciughe (freschissime) ed eliminare la sacca delle interiora. Avere l’accortezza che coda, corpo e spina rimangano intere. Se si ha la possibilità, sciacquarle in acqua di mare pulita per eliminare in questo modo ogni traccia di sangue, altrimenti asciugarle con un panno pulito per ottenere lo stesso risultato.
Porle in “Albanelle” a strati, intervallati da sale marino grosso e pepe in grani. Terminare con uno strato di sale. Mettere in cima un peso, di solito una pietra di mare levigata della giusta misura. Controllare nei primi giorni che siano coperte di sale o della salamoia che si forma ed eventualmente aggiungere altro sale. Lasciare maturare per uno/ due mesi.

Sono dei grossi ravioli con un ripieno fatto quasi interamente di zucca, e poi formaggio, tuorlo d’uovo e maggiorana. Per un gusto più deciso aggiungere al ripieno un cucchiaino di “Bruzzo”, ricotta di capra fermentata dal sapore particolare, forte e deciso (per chi non lo apprezza decisamente nauseante).
Il nome barbagiuai deriva da “Barba di zio Giovanni”. Probabilmente deriva dal fatto che se si spezzano, formaggio e filamenti della zucca assomigliano alla barba di un antico zio Giuà.

 

Esiste anche una versione con il ripieno di erbe

Raccogliere nei campi le varie erbe: bietole, borragine, scarola, lattughino, maggiorana, “arunzane”, “scarpirui”, l’ortica, il raponzolo, la valeriana rossa, la cicoria selvatica, la pimpinella, il dente di leone o piscialetto, il rosolaccio, la piantaggine, la lingua di cane, etc.. a seconda della stagione.
Impastare farina, acqua, olio extravergine e sale sino ad ottenere una pasta soda ed elastica. Coprire con un canovaccio e lasciare riposare.
Sobbollire velocemente in abbondante acqua le varie erbe e strizzarle con le mani. Tritare le erbe ed aggiungere uova, abbondante ricotta, parmigiano, sale e pepe. Confezionare dei ravioli e friggere in olio extravergine d’oliva.
Nella cucina ligure dell’uso delle erbe sono sempre state depositarie le donne, tramandando la conoscenza di madre in figlia, probabilmente ereditata dalle “Bagiue” (Streghe) nel Medioevo.

E’ l’antico modo di cucinare la pasta nei campi, per garantire un piatto caldo alle persone che aiutavano in “giornata”. Nelle campagne si accendeva solo un fuoco con dei “trunchi” (piccoli rami di olivo secchi) in mezzo a due “prè” (pietre) a ridosso di un “cantun in të una sprëscia” (un angolo vicino ad un muro), dove si faceva scaldare “a bagna” (il sugo) preparato la sera prima, si allungava con acqua (non troppa) e qui si cuoceva la pasta. Porro selvatico e qualche erba aromatica trovata nelle “fasce” arricchiva l’aroma ed il sapore del piatto e rappresentava una piacevole novità. La si può cospargere con Toma di Pecora Brigasca grattugiata.

 

Ingredienti per quattro persone:

-1 cipolla bianca

-2 spicchi d’aglio

-1 bicchiere d’olio extra vergine d’oliva

-300 gr. di salsiccia

-350/400 gr. di mezze penne rigate

-un pugno d’olive in salamoia di varietà taggiasca

-polpa tritata di 3 – 4 pomodori maturi

-1 bicchiere di vino Rossese

-1 mazzetto di timo, rosmarino, salvia, alloro

-sale, pepe, acqua calda

-1 fungo porcino affettato

Il pallone elastico o palla-pugno sulla piazza di Apricale rappresenta qualcosa di più di quello che può essere considerata una tradizione, o uno sport, non credo che esista nulla di simile in un contesto tanto anomalo, una palla di gomma del peso di 190 grammi, inferiore ai 10 cm di diametro ( un tempo realizzata con vesciche di animali) che si proietta a gran velocità per 70/80 metri, altissima, superando i tetti ed i muri delle case, perdendosi in meandri ed anfratti, il più delle volte rimanendo miracolosamente in gioco e ritornando indietro come un boomerang; le regole sono antichissime e mai scritte, si colpisce al volo ed al primo rimbalzo, muri e gradini fanno sempre volo.
Fino al 1800 si colpiva la palla anche con i piedi o il ginocchio, poi solo con le mani o meglio con il pugno. Il polso va fasciato bene con bende e cuoio, oggi anche con materiali sintetici. Gli arbitri (sempre due) controllando il gioco, seguono le “caccie” e decidono in caso di contenzioso. Il torneo di palla-pugno si ripete ogni anno, da metà giugno a metà luglio, e vi partecipano una ventina di squadre, giocatori professionisti, amatori, giovani e meno giovani, un tempo provenienti dai paesi delle vallate limitrofe, oggi da dove ancora si ama e pratica questa antica disciplina, rimasta circoscritta al basso Piemonte ed alla Liguria dell’estremo ponente, spesso nascono sfide e si riaccendono vecchie rivalità (sportive!) che possono scatenare liti e bagarre per poi concludersi davanti ad un buon bicchiere di vino.
Merita assistere e fotografare momenti di questo folcloristico sport, vedere la palla proiettarsi radente la parete dell’antico castello dei Doria, nulla a che vedere con le partite nei campi regolamentari, ovviamente più tecniche, ma meno intrise di sapori antichi. Chi gioca e ama il pallone elastico o “balun” dovrebbe almeno una volta giocare nella piazza di Apricale, il gioco è folle, i pronostici difficili…